Defecazione ostruita: ostruzione del retto o dell’anima?
Questa è la sintesi del racconto di una paziente. Una storia drammatica per i vissuti in famiglia e nel lavoro e sgradevole per la
gestione medica del caso. La paziente ha voluto verificare le indicazioni ad un intervento propostole per defecazione ostruita e per un
prolasso rettale tra l’altro rivelatosi del tutto inesistente. L’anamnesi attenta ha evidenziato una di quelle realtà estreme ma non eccezionali,
in cui l’intestino funge da specchio dell’anima. La storia è anche emblematica di una malasanità che noi riteniamo spesso
artificiosa. Tuttavia imperizia e malafede non di rado sono in agguato.
Scrivere la propria storia ha aiutato la paziente a ritrovare se stessa, recuperando il rapporto con la madre e a rendersi conto della
natura del suo problema intestinale, un problema di certo non chirurgico.
Ghislain Devroede in “Ce que les maux de ventre disent de notre passé” (Payot Ed., Paris, 2002, pagg.1-311) nel capitolo sulla
comuni cazione non verbale ribadisce come il medico sia spesso sordo e cieco al linguaggio del corpo. Il libro (recensito in Pelvi -
perineo logia 2005; 24:136 e diviso in sei capitoli: le parole del ventre, la linea della vita, la memoria del feto, mal di pancia e abusi
sessuali/e lo chiamano amore, le parole del silenzio, la malattia come memoria del passato) aiuta ad interpretare ciò che si può nascondere
dietro stipsi, dolore addominale cronico, diarrea, mettendo in evidenza le innumerevoli e spesso ignorate interazioni tra
l’avanti e il dietro, tra le funzioni urinarie, sessuali, riproduttive e digestive che la medicina considera in genere separatamente.
L’addome, soffrendo. esprime sovente ciò che l’individuo non può nominare. Ecco che si rende necessaria una visione integrata non
solo del pavimento pelvico ma della persona nella sua completezza.
Giorgio Bert in “Medicina narrativa, storie e parole nella relazione di cura” (Il Pensiero Scientifico Editore, Roma, 2007, pagg.
I-XII, 1-287) sottolinea come la medicina narrativa non sia una disciplina pari a biochimica o semeiotica, ma piuttosto “un atteg -
giamento mentale del medico che deve consentire di esplorare un territorio di cui si sa poco o niente, ossia il mondo dell’altro, del
paziente. Un mondo in cui parole e concetti hanno spesso significati molto diversi da quelli che siamo abituati a considerare veri,
razionali, logici”. La semeiotica strumentale e la tecnologia non possono certo sostituirsi alla valutazione della storia personale
e intima dei pazienti e di tutta la persona, soprattutto nelle malattie cosiddette funzionali. G.D.
«Tutto ha avuto inizio una quarantina di anni fa quando
nacqui in compagnia del mio gemello Antonio. Fui io a fare
capolino su questo mondo che tanto mi ha regalato, tranne
che la tranquillità e la felicità. Quando emisi il primo vagito,
mia madre chiese: “dottore è un maschio?”, il medico
“no, una femmina” e lei: “mannaggia!” Quando avevo appena
sette anni ebbe la sensibilità di raccontarmelo e ciò mi
diede tanta sofferenza. La sua preferenza per i maschi me
l’ha marcata per tutta la vita. Prima che nascessi, poverina
ne aveva persi due di maschi, infatti le perdonai questa preferenza,
ma non le ho mai perdonato come ha allevato il
suo primo figlio T., uno stronzo irriconoscente che ha succhiato
per una vita intera i miei genitori…, ma per mamma
i maschi possono osare tutto, tutto gli è dovuto, e anche a
80 anni non ha mai cambiato idea. Ogni premura, carezza
andava a T. mentre noi gemelli sin da piccoli ci han fatto lavorare.
La casa era un inferno per me. Mamma mi faceva
anche picchiare da T. Le prendevo senza capire e quando
mio padre, un vigile urbano, tornava cercavo in lui protezione,
ma non capiva! Io ero colpevole di tutto il negativo
che circolava in quella casa. Botte, umiliazioni. Con mamma
ero servile, mendicavo affetto ma venivo su aggressiva,
praticavo sport di forza per sfogare quella rabbia che si alimentava
ogni giorno di più.
A 24 anni ottenni un posto in una multinazionale come
autista di auto blindate. Vivevo in camere in affitto con delle
studentesse, cambiando spesso poiché anche la convivenza
con gli estranei è stata problematica. Al lavoro ero l’unica
donna e dal primo all’ultimo giorno mi hanno mobbizzata.
Una donna giovane con quel ruolo, dà fastidio. Quando
il gioco iniziò a farsi pericoloso scappai, chiedendo il trasferimento.
Nel 2002 mi fratturai una gamba sul posto di lavoro. Per
due mesi, con il gesso e in convalescenza, mamma non venne
a trovarmi una volta, soffrii per il suo comportamento,
mi chiedevo come lei fosse indifferente al mio dolore o al
bisogno di non vedere una figlia che stava male. Poi mi dovetti
operare di una presunta fistola vicino alle parti intime.
Mi operò nel suo ambulatorio un chirurgo con il laser.
Credo fosse un incompetente poiché aveva scambiato un
canale di pus provocato da un pelo, per fistola. Quando comunicai
l’operazione a mia madre, chiedendole se mi accompagnava,
mi disse: “Hai tanti amici, vai con loro, a me
queste cose danno fastidio”. Mi appoggiai allo stipite della
porta con un gran giramento di testa e un tonfo di fuoco
nello stomaco. Quel tonfo di fuoco mi era ormai familiare
da anni, lo sentivo sempre quando ricevevo ingiurie, ingiustizie
e botte in famiglia. Quella volta ebbi la sensazione
che gli intestini si stessero attorcigliando!
Da bimba ho visto sempre scene terrificanti, papà, alcolista,
che picchiava mamma, io prendevo le sue difese, ma
quando mi sentiva starnutire o tossire mi diceva: “Non ti
ammalare che non ti curo”. La mia vita è stata un inferno!
Nella grande città tutto cambiò come per magia. Fui subito
ben voluta da tutti i colleghi e i superiori. Ero coccolata
e valorizzata. Conobbi la dottoressa B., gran donna, che
mi trattava come una figlia. Dico “era” perché ora non c’è
più. La sua morte mi ha messo in ginocchio! Quando decisi
di andare a visitare la sua tomba subii un blocco. Non
riuscivo ad andare più in bagno a defecare. Combattevo
con la mia stitichezza tutti i giorni. Mi trasferii in un’altra
città, ma stavo malissimo, ogni giorno clisteri. Seguirono
anni di visite e accertamenti in un grande ospedale universitario.
Ho speso tanti soldi senza risolvere niente, anzi,
avevano plasmato la mia mente facendomi credere che io
avessi bisogno di un intervento chirurgico con le suture
meccaniche. Sono rimasta a lungo nella lista dei ricoveri
per essere operata per rettocele, enterocele e non so cosa altro
mi avessero diagnosticato.
A salvarmi, lei… la mia cara dottoressa B. Decisi di telefonare
a sua sorella, medico, che subito mi ha indirizzata in
un ospedale dove sono stata visitata il giorno dopo. Non mi
sembrava vero visto che in precedenza dovevo farmi raccomandare
o aspettare tempi lunghi o pagare, pagare… Mi fu
detto che non avevo bisogno di operarmi, e che sarebbe stato
utile di cercar di raccontare la mia storia. Questa storia.
Cominciai a sentirmi meglio.
Un giorno vengo avvisata che mamma, diabetica, è all’ospedale
con scompenso, blocco renale, gangrena del
piede. L’ho subito raggiunta e la notte passata accanto al
suo letto ho visto in lei la faccia della morte. Durante quella
notte ho avuto un bruciore tremendo al centro dello stomaco,
sotto i seni, come se mi perforasse la schiena.
Quella palla di fuoco si spostò per tutta la pancia per poi abbandonarmi in uno stato di paura. La mattina dopo, il
miracolo…. Defecai da sola, spontaneamente, finalmente
senza clisteri. Le feci erano fluide, morbide e consistenti,
non più caprine. Tutte le notti ero accanto a mia madre,
tutte le mattine andavo in bagno spontaneamente.
Lei
quella notte del “miracolo” mi disse stringendomi la mano
“ti voglio bene”. Quello scambio di affetto e amore che
avrei sempre voluto con mia madre l’ho realizzato nel suo
letto di ospedale. E lei che per tanti anni aveva sempre rifiutato
le mie malattie, mi aveva portato ad accettare le sue
e ad accudirla.
Il perdono fu immediato, tutto in quella sera. Ho pregato
per lei, finalmente potevo comunicarle il mio bene.
Purtroppo le hanno amputato la gamba, la gangrena ormai
aveva lavorato troppo.
Ora sono in aspettativa, senza stipendio, e con la cacca
fino al collo …. quella cacca che mi ha fatto tanto penare e
che adesso desidero sia sempre presente nella mia vita!
Ma
non non me la prendo con nessuno, e sento una pace dentro.
Non fa niente se non ho soldi, l’importante è avere l’affetto
di familiari e quello di amici, ne ho tanti, sparsi per
l’Italia. Faccio parte di una ONLUS, si fanno concerti e
spettacoli per raccogliere fondi per i malati. Mi impegno
tuttora ad organizzare gare di arti marziali e spero di poter
collocare mamma in qualche casa di riposo a nella città dove
lavoro, per poterla seguire e darle un po’ di felicità negli
ultimi anni della sua vita. Anche lei è stata una vittima della
sua famiglia. Il luogo dove avvengono più violenze è la
famiglia. Purtroppo non per tutti la famiglia è un luogo di
amore e protezione!”.